Gli incontri inaspettati sono quelli che lasciano il sapore migliore in bocca. Il mio incontro con un Lacryma Christi bianco, nel corso di una edizione (l’ultima) di Cantine Aperte al Castel dell’Ovo, decisamente sottotono – soprattutto per l’assenza dei produttori che ne dovrebbero essere i protagonisti – ha dissipato le nubi di un pomeriggio domenicale piuttosto caldo e umido.
Lo accosto al naso e… Eureka: “eleganza!”. E’ paglierino carico, con riflessi dorati, luminoso e piuttosto consistente. Al naso ha un battito minerale evoluto ma per niente “stanco”.
Non ha grande intensità al naso ma una complessità che conquista, strappando esclamazioni di sorpresa a ogni olfazione. Un tappeto minerale, e sentori di ginestra, frutta matura ma non cotta. Un accenno fumè proprio elegante mi fa pensare a un vino francese di gran finezza.
Il tutto è discreto e sussurrato. In bocca mostra un bel dinamismo, con un giochino piacevole tra sapidità, freschezza e dolci note vellutate. Non una grande lunghezza, ma, tutto sommato, una decisa coerenza.
“Chi? Cosa?” sono le domande, ora. “Villa Dora” mi diranno. “C’è qualcosa di speciale, però, in questa bottiglia!…Qualcosa che mi sfugge”. La giro per dare un’occhiata alla retro etichetta è scopro l’arcano: ho tra le mani una notevole e sorprendente 2002.
L’azienda della famiglia Ambrosio, con Vincenzo, fondatore, e i figli Antonio, Francesca e Giovanna a coadiuvarlo, con la consulenza dell’enologo toscano Roberto Cipresso, lavora falanghina, coda di volpe, aglianico e piedi rosso su 13 ettari di proprietà, a Terzigno,
I vigneti coltivati sulle terre nere del Parco Nazionale del Vesuvio sono a circa 250 metri sul livello del mare.
“Che fantastica bottiglia!” mi dico. Qualche settimana dopo, difatti, stupirò il gruppo di colleghi di Slow Food al lavoro sui Greco di Tufo alla Fabbrica dei Sapori. Racconto tutto sul sito di Luciano Pignataro (qui).