Ecco i miei appunti sulle degustazioni finale di Campania, Basilicata e Calabria alla Tenuta Montelaura da Flavia e Lello Tornatore con i loro ragazzi e la loro cucina di sostanza e poesia. Una due giorni con il curatore Giancarlo Gariglio e il coordinatore Luciano Pignataro e tanti colleghi con i quali mi onoro di cooperare. Peccato sia finita. racconto l’atmosfera, gli assaggi, e le impressioni sul blog di Luciano Pignataro.
I viniTanti, ma sempre più selezionati. Il lavoro di gruppo fatto sull’Irpinia nei mesi scorsi alla Fabbrica dei sapori ha, a mio avviso, portato a una definizione dei campioni in degustazione di questa importante realtà della Campania, davvero ottimale per qualità e numero. Al lavoro a Forino, ieri e l’altro ieri, due commissioni nutrite e agguerrite. Dovizioso il lavoro di assaggio, dettato dai tempi del vino e dell’uomo.
Alcune considerazioni generali, non personali ma generalmente condivise, mi pare, relative ai vini degustati: gli Aglianico vari dell’Irpinia e della Basilicata, i Greco e i Fiano, i Cirò. Soprattutto., per quello che ha riguardato il mio gruppo.
2010 l’annata prevalente per i bianchi. 2009 – 2008, invece, quella degli Aglianici del Vulture. 2007 quella dei Taurasi. Senza dimenticare Riserve e annate antecedenti.
La Campania può essere più che soddisfatta dei suoi magnifici bianchi di punta: decisamente meglio, però i Greco, rispetto ai Fiano. Vibranti, pieni, esaltanti i primi; più sgranati, tendenzialmente, i secondi.L’Aglianico di Taurasi è a ottimi livelli con la Docg – come mi aveva anticipato l’Anteprima di Taurasi – ma pochi sono davvero memorabili . Tra questi, per lo più, quelli figli di aziende contadine. Mi vengono in mente Boccella e Tecce, che si sono messi in evidenza. Sembra tendano un po’ a una omologazione, pur restando di livello qualitativo alto (scevri da inutili appesantimenti di cantina e di tannini di intollerabile durezza, gli altri.
Emerge, dagli assaggi, che la Doc Irpinia non ha trovato la sua strada. I vini sono per lo più modesti. Peccato perché Campi Taurasini potrebbe essere il volto più abbordabile di un vino che resta per indefessi bevitori provetti, aprendogli una serie di strade.
Molto interessanti gli Aglianici del Vulture, rappresentanti in buon numero. Qui, mi è sembrato, di sentir parlare più chiaramente il territorio vulcanico. Ben evidente la differenza con quelli di Taurasi.. A parte che legata alla frutta, banalmente, la differenza è nello stile. A volte quello lucano, però, resta anche fin troppo amico della concentrazione. Cosa che non sempre è sostenuta da una pari gradevolezza. Insomma: l’Aglianico resta duro anche se ha l’aspetto di un soffice velluto.
La Calabria ha portato dei bei Cirò, tipici. Forse, taluni, ancora “troppo calabresi”, passatemi la definizione approssimativa. Con ciò non voglio che dire che molti sono figli di impostazioni di gusto care alla tradizione ma poco comprensibili ai più. Ne amiamo però la coerenza e ribadiamo che per noi l’alternativa non è il ricorso ai vitigni internazionali. Forse, piuttosto: un po’ meno legno, ma migliore, potrebbe essere la soluzione. Più attenzione alla pulizia olfattiva.
Tra questi vini ho trovato il migliore di questa due giorni. Non è una sorpresa ormai per nessuno sebbene tutti si arroghino il diritto di dire che lo conoscevano prima di ogni altro, come accade per le grandi bottiglie: A Vita Cirò Rosso Classico Superiore di De Franco, vino che ha rubato il soffio di una rosa calabra piena di ardore. Incantevole ed emozionante.
Infine, due note sui Falerno del Massico, sui quali dovrò tornare perché sia le degustazioni di Forino, random (non erano nella mia commissione), che quelle a Capua, al Palazzo Lanza nelle settimane scorse, mi hanno lasciata un po’ perplessa. Qualche collega che ne ha avuto una panoramica più completa ha detto lo stesso in generale per i vini del casertanio. Occorrono forse idee più chiare: sembra che il Falerno attraversi una fase in cui ha finalmente acquisito coscienza di sé ma è in certa di un registro espressivo. Ciò non vuol dire che non ci siano delle stelle, ma ci sono anche troppi lumini. Mi pare, occorrano profili gusto olfattivi più nitidi, più slancio. Ultimi, per trattazione, i rosati di ogni ordine e grado. Su questa categoria ho davvero poco da dire se non che li adoro e che tirano il mercato ma che, purtroppo, nessuno, visti i risultati, ci crede. Quelli degustati hanno convinto tendenzialmente poco a riprova che un rosato è tutt’altro che un ibrido, ma un vino con dei caratteri precisi … se buono.
Bene, qui le mie osservazioni. Valgono come modesto contributo ai lettori e ai produttori quantomeno come memorandum. Una guida, in fondo, non è una condanna o un’assoluzione ma una fotografia scattata da chi guarda, noi, nel mirino sperando che sia la più riuscita possibile. E se non lo è, si aspetta e si spera nel … prossimo anno.