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il coniglio all’ischitana di Monica |
Non si ha idea di quanto Ischia, la bella isola verde dell’arcipelago campano, sia dedita all’agricoltura, tra una tonnellata di cemento e l’altra. Agrumi, orti, albicocche, vigne. Ma se c’è un prodotto che la contraddistingue, questo è il coniglio. Il consumo procapite di questa carne, sull’isola, è da record. Il punto è scegliere quello buono, allevato con cura. Nei banchi frigo della grande distribuzione non lo troverete, quello ischitano. Ogni colta che ne vedo uno attorcigliato su una guantiera di poliuretano sono tentata di provarlo. Ma poi dico: “aspetto”. E cosa aspetto? Di andare a mangiarlo sul posto e magari vedermi servito quello originale da fossa, Presidio Slow Food, cioè allevato libero di scavar cunicoli come la natura suggeisce al roditore e come è sempre fatto sull’isola dai contadini che cosi’ ne evitavano la fuga e contemporaneamente assicuravano una crescita naturale all’animale e ai suoi numerosi cuccioli. Oppure aspetto che la mia amica di ischia, Monica, mantenga la promessa di portarmene uno, e di cucinarmelo pure.
I segreti, per quella che è la mia esperienza, e la sua: tegame di coccio, aglio vestito, “imbrugliatielli” fatti con l’intestino attorcigliato e riempiti solo di un ciuffo di prezzemolo (una delizia), ricche spezie dell’isola (tra cui la “Piperna”), peperoncino, olio extravergine (ne esiste un altro?), e il quinto quarto dell’animale a cuocere insieme alla carne. Relativamente al procedimento, un trucco: far rosolore al principio molto bene i pezzi di carne in olio in modo che si formi una doratura che imprigiona il succo, visto che quella del coniglio è una carne che tende a diventar secca.
Da non perdere, dicono a casa di Monica (Lello docet): lo spicchio d’aglio vestito è meglio di un bon bon alle spezie mediterranee. Ma io confesso che me lo sono risparmiato; ooserò la prossima, quando andrà in scena “il roditore 2 la vendetta”, ovvero la seconda delle cene in programma.
E il vino? Fin troppo scontato l’abbinamento con una Biancolella. Se la trovate prendetene una d’annata. Un pò più di complessità e pienezza collimerà con la ricchezza in spezie della preparazione. Ma, non andando troppo lontano, perchè non un Lacryma Christi bianco o un bel Piedirosso solo acciao, di quelli più leggiadri e magari un pò fresco. Io ho sperimentato una Lacrima del Morro d’Alba Conti di Buscarello 2009. Il ragionamento che ho fatto: “raro l’animale, raro il vino”. Un rosso di media struttura, molto profumato. Questo millesimo si è rivelato molto interressante: granatina di frutta nera fresca con alcune sfumature di spezie nere. Un timbro originale al naso, di spezie di una cucina del Nord, di un tipo pasticceria con la quale ho familiarità nella mia bella Germania. Si: semi di papavero utilizzati in un dolce che è davvero poco dolce, leggermente acido, con una scia lievemente amara dovuta ai semi. Proprio come questo Lacrima che consiglio per la sua morbidezza e originalità. Decisamente da attribuire al vitigno. Questo significa bere autoctono. Beh: con il coniglio ischitano, questo vino marchigiano è andato molto bene. Aveva la giusta persistenza aromatica e corpo. Hanno, poi, in comune ancora qualcosa il coniglio e il vino: vengono da due terre di cui si capisce poco. Bisogna scavare sotto la crosta per apprezzare la turistica Ischia e altrettanto per capire le Marche, terra che ha tante cose da dire.